Una mente artificiale in un corpo artificiale
Forse, in realtà, stiamo assistendo a una graduale fusione della natura generale delle attività e delle funzioni umane con le attività e le funzioni di ciò che noi umani abbiamo costruito e di cui ci siamo circondati.
(Philip Dick, Mutazioni)
INTRODUZIONE
Il robot, unione di mente sintetica e di corpo sintetico, rappresenta l’ultima versione del nostro tentativo plurisecolare di costruire l’uomo artificiale. La somiglianza sempre più spinta tra robot e uomo, che si estende alle capacità cognitive, all’autonomia e in prospettiva anche alle emozioni e forse alla coscienza, pone interrogativi inquietanti. La crescente diffusione dei robot in tutti i settori della società ci obbliga a considerare il rapporto di convivenza uomo-macchina in termini inediti, che, forse sorprendentemente, coinvolgono anche l’etica. Affrontare questi problemi è importante e urgente.
Mentre l’evoluzione biologica ha dotato gli organismi viventi prima di un corpo e poi di un cervello, avente funzioni di controllo centrale e dotato in certi casi di proprietà cognitive superiori, non strettamente necessarie alla regolazione del corpo, l’intelligenza artificiale funzionalistica ha invece cercato di costruire una mente senza corpo, cioè un’intelligenza che imitasse le funzioni simboliche e astratte del cervello biologico evitando ogni interazione con un ambiente considerato fonte di disturbo. Tuttavia le difficoltà di estendere questa forma d’intelligenza artificiale al di fuori dei domini simbolico-formali hanno fatto ritenere che soltanto accoppiando la mente artificiale all’ambiente, attraverso un corpo artificiale dotato di sensi e di organi attuatori, si potesse ottenere un’intelligenza flessibile e ad ampio spettro com’è quella biologica.
Il recupero della dimensione corporea e sensoriale ha portato ai robot e ha aperto una serie di interrogativi che vanno dagli aspetti tecnici della loro costruzione fino a sottili questioni di natura etica. Infatti il robot è un artefatto capace di apprendere e dotato di una certa autonomia di decisione e comportamento. Queste caratteristiche, in una prospettiva di stretta convivenza uomo-robot, non possono non sollevare certe domande:
- Fino a che punto siamo disposti a convivere coi robot, ad affidarci a loro nella vita quotidiana, nell’accudimento e nelle cure?
- Se i robot dovessero un giorno diventare intelligenti e sensibili (quasi) quanto gli umani, potremmo continuare a considerarli macchine, come le lavatrici o le automobili? O dovremmo adottare atteggiamenti empatici e comprensivi come nei confronti degli animali domestici? Dovremmo arrivare ad attribuire loro dignità etica?
- E viceversa: quali comportamenti dei robot dovremmo tollerare, incoraggiare o vietare? E di chi sarebbero le responsabilità di un loro eventuale comportamento dannoso?
L’ultima domanda è importante perché rivela il conflitto tra la natura artificiale dei robot, per cui essi dovrebbero obbedire alla nostra programmazione, e la loro parziale autonomia (se un robot non è autonomo non è un robot) che, in linea di principio, potrebbe indurli a decisioni nocive nei nostri confronti. Il conflitto diventa drammatico nel caso nel caso dei “robot soldati”. Erano problemi di questo genere che aveva in mente Asimov quando nei primi anni 40 postulò le “Leggi della robotica”, che vietano ai robot di compiere azioni dannose per gli esseri umani e che costituiscono il primo embrione di un’etica dei robot o, con un espressivo neologismo, di una “roboetica”. In questo ambito le previsioni si mescolano facilmente con la fantascienza e accanto alle speculazioni ci sono le realtà: in Giappone (il paese di gran lunga più avanzato nella costruzione e nell’impiego dei robot) si tocca con mano quanto possa diventare intenso il rapporto uomo-macchina quando il robot sia un (o una) “badante” con sembianze umane oppure quando abbia più o meno le fattezze e il comportamento di un animale domestico (si pensi ad Aibo, il robot cane della Sony, ormai fuori produzione, che per anni ha svolto la funzione di “animale” da compagnia).
La proiezione affettiva è tanto forte da suscitare problemi psicologici e, ancora una volta, etici. E poi, in generale, la marcia sempre più convulsa di una tecnologia invasiva e onnipresente non può non avere effetti profondi sull’immagine che abbiamo di noi stessi e sul nostro stesso essere “umani”: specchiandoci in quello straniante alter ego che sta diventando il robot, quale immagine ce ne ritorna? Riusciremo, per differenza o per similarità, a capire qualcosa di più di noi stessi? Che questi problemi siano importanti e urgenti, è confermato dall’istituzione di un Comitato tecnico per la roboetica in seno alla Robotics and Automation Society dell’IEEE (Institute of Electrical and Electronics Engineers).
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