Lavoro e energia

Il concetto di “energia” è strettamente legato all’idea di “lavoro”. Taluni modi di dire che ci suonano familiari perché ci accompagnano da sempre (“fai un buon pasto e avrai energia”, “chi ha energia fa molto lavoro”) rispondono in effetti a sicuri principi scientifici. Come questi: l’energia chimica delle sostanze alimentari può essere trasferita ai sistemi biologici, oppure: l’energia è la capacità di compiere lavoro.

 

Il lavoro

Se si applica una forza ad un oggetto e lo si muove per una certa distanza, si afferma che si è compiuto un “lavoro”. Se si sollecita un oggetto qualsiasi, lungo una superficie che fa resistenza, con una forza che vince l’attrito e sposta l’oggetto in questione lungo una distanza s, si esegue un “lavoro”.

“Lavoro” è dunque il prodotto di una forza applicata a un corpo da un agente esterno per la distanza su cui quella forza agisce sul corpo.

In → 1 la direzione dello spostamento coincide con la direzione della forza applicata, mentre il lavoro eseguito dalla forza F per muovere la massa m di una distanza s è:

 

L = F·s

 

In → 2 invece la direzione della forza forma, con la direzione del moto, un angolo θ. Questa forza può essere considerata come la somma vettoriale di due forze indipendenti (le componenti x e y):

 

Fx = Fcosθ

Fy = Fsenθ

 

La componente Fx, è diretta lungo lo spostamento; il lavoro da essa eseguito è pertanto: Fx·s = F·s ·cosθ.

Nella direzione y non si ha spostamento; quindi, la componente Fy, non esegue lavoro. La nostra definizione di lavoro deve di conseguenza risultare: il lavoro è il prodotto della forza nella direzione dello spostamento per il valore dello spostamento prodotto dalla forza. Da questa definizione possiamo dedurre:

 

  1. il lavoro è nullo, se è nullo lo spostamento, o se è nulla la forza, o se, non essendo nulli nessuno dei due, sono fra loro perpendicolari;
  2. il lavoro è positivo quando la proiezione della forza sullo spostamento ha lo stesso verso di questo, ed è negativo se ha verso opposto;
  3. quando la forza e lo spostamento hanno la stessa direzione, il lavoro è uguale al prodotto del modulo della forza per lo spostamento, con il segno + o -, a seconda che siano dello stesso verso o di verso opposto (→ 3).

 

L’unità di misura del lavoro è, nel sistema MKS, il joule (J), cioè il lavoro che effettua una forza di un N per spostare il suo punto di applicazione di un m nella sua stessa direzione e verso. Se, invece della forza di un N, si considera una forza di un chilogrammo-peso, l’unità è il chilogrammetro (kgm), che corrisponde a 9,8 J. Nel sistema cgs, l’unità è l’erg.

 

L’energia

Si dice che un corpo, o un sistema di corpi, possiede energia quando è in grado di effettuare un lavoro. Osserviamo l’illustrazione (→ 4): un’automobile che urta contro una palizzata non fa danno, se procede a velocità modesta, poiché non ha la capacità di compiere il lavoro necessario a vincere le forze di coesione della barriera, ha invece questa capacità se urta la palizzata a velocità elevata. L’automobile dunque possiede, in virtù della velocità, un’energia che si trasforma in lavoro al momento dell’urto.

Passiamo alla illustrazione successiva (→ 5), dove è preso in considerazione un oggetto inizialmente in stato di quiete. Se gli si applica una forza costante F, l’oggetto accelera; dopo che ha percorso una distanza s, acquista una velocità v = at (trascurate le forze di attrito). La distanza percorsa è s = 1/2 at2, quindi:

 

In questo caso dice che l’oggetto ha acquistato una quantità di energia pari a 1/2 mv2. 

L’energia acquisita da un oggetto in virtù del suo moto è detta energia cinetica; essa dipende non solo dalla velocità, ma anche dalla massa.

È dimostrato che l’energia cinetica rappresenta il lavoro massimo realizzabile da un corpo in seguito al suo stato di moto, e che al lavoro contro le forze esterne corrisponde una diminuzione della sua energia cinetica. Vediamo il caso contrario: se al mobile si applicano forze che ne favoriscono il moto, il loro lavoro è uguale all’aumento di energia cinetica del mobile (teorema delle forze vive).

Se solleviamo un oggetto di massa m, inizialmente in quiete, fino ad una posizione situata ad un’altezza h e lo lasciamo di nuovo in quiete (→ 1), realizziamo con questa operazione un certo lavoro contro la forza gravitazionale senza tuttavia variare la velocità: il corpo non acquista infatti energia cinetica. Esso possiede peraltro energia in virtù della posizione; se infatti lasciamo cadere l’oggetto dall’altezza h, questo la trasforma in energia cinetica.

Ogni corpo, nel campo gravitazionale terrestre, possiede una energia potenziale: il lavoro eseguito contro la forza gravitazionale viene immagazzinato e conservato sotto forma di energia potenziale (→ 2).

Un’altra illustrazione (→ 3) dà un semplice esempio di energia cinetica trasformata in energia potenziale, e viceversa. Una massa m scivola su un piano senza attrito e con velocità costante v0 e va ad urtare contro una molla. Compressa nell’urto, questa esercita una forza sulla massa e ne provoca il rallentamento. Questa forza non è costante: in buona approssimazione, essa è proporzionale al valore x di deformazione della molla (legge di Hooke).

L’energia cinetica della massa diminuisce, fino ad annullarsi, quando la velocità si annulla e la molla è al massimo della compressione: x = d: a questo punto, tutta l’energia è immagazzinata come energia potenziale della molla. Successivamente, la massa acquista velocità nella direzione opposta, fino ad abbandonare la molla con il modulo della velocità pari a v0 ed energia cinetica pari a quella iniziale: tutta l’energia cinetica perduta durante la compressione è stata riguadagnata. L’energia meccanica, data dalla somma dell’energia cinetica più l’energia potenziale, si conserva durante il processo.

A questo risultato si perviene ogni volta che le forze che intervengono sono forze conservative caratterizzate dalla proprietà per cui la quantità di lavoro compiuto dipende soltanto dalla posizione iniziale e finale del loro punto di applicazione (e non già dal cammino percorso durante il processo). La forza gravitazionale è un esempio di forza conservativa (→ 4), come la forza di richiamo della molla. Invece l’energia meccanica non si conserva quando intervengono forze, come quelle di attrito, che, partendo da una posizione e ritornando in essa, non abbiano lavoro nullo. Le forze di attrito si oppongono sempre al movimento: quando questo si inverte, esse pure si invertono per cui il lavoro realizzato è sempre negativo (→ 5).

 

Impulso di una forza e quantità di moto

Quando a una massa m si applica una forza si provoca un’accelerazione. Quanto più lungo è il tempo in cui l’accelerazione è diversa da zero, tanto maggiore è la variazione di velocità. Si definisce così una grandezza in cui, insieme alla forza, intervenga il tempo (il tempo in cui esiste accelerazione) quando la forza è diversa da zero.

Questa grandezza è l’impulso della forza, che si definisce come un vettore di uguale direzione e verso della forza, con modulo dato dal prodotto della forza per il tempo in cui essa agisce.

Se una persona viene colpita con un oggetto di 30 g che si muove a una velocità di 1 m/sec, è possibile che questa persona non avverta l’urto: l’effetto è altro se l’urto è provocato da un corpo che si muove alla stessa velocità (1 m/sec) ma che abbia massa assai maggiore (un’auto, ad esempio).

La massa del mobile ha, quindi, una notevole importanza sul risultato.

D’altra parte, anche la velocità riveste un ruolo importante: un proiettile, di massa piccola, ma che procede a 400 m/sec, può uccidere una persona. Perciò definiremo la quantità di moto di un corpo come un vettore di uguale direzione e verso della velocità, con modulo uguale al prodotto della massa per il modulo della velocità: P = mv.

Se la forza F agisce durante il tempo t, originando un’accelerazione a, la velocità varia durante il tempo Δt di aΔt: in base alla legge di Newton, ciò rappresenta una variazione della quantità di moto pari a: 

ν = maΔt = FΔt

 L’impulso di una forza è uguale pertanto alla variazione della quantità di moto.

 

Conservazione della quantità di moto

Supponiamo di poter disporre di un sistema isolato, cioè di un sistema i cui componenti interagiscono senza l’intervento di forze esterne (in realtà, un sistema si può considerare isolato quando la mutua interazione fra i componenti superi di molto la loro interazione con altri corpi). Poiché la forza totale F è uguale a zero, la quantità di moto totale non varia nel tempo: ha luogo in tal modo il principio della quantità di moto isolati, valido non solo per sistemi classici ma anche per i sistemi quantistici.

In → 1, abbiamo due masse in quiete collegate da una molla in compressione; in questa situazione, se si trascurano la massa della molla e l’attrito, la quantità di moto totale del sistema la quantità di moto e è nulla e, trattandosi di sistema isolato, la legge impone che tale debba rimanere. Con la liberazione della molla, gli oggetti si allontanano l’uno dall’altro a velocità v1 e v2.

Perciò:

 

0 = m1 v1 + m2v2 → m1 v1 = – m2v2

 

dove il segno negativo indica che le velocità hanno orientazione opposta.

Passiamo all’illustrazione successiva (→ 2): anche in uno sparo non intervengono forze esterne al sistema (l’arma) per cui si conserva la quantità di moto. Prima dello sparo P è uguale a zero, poiché fucile e proiettile sono a riposo; dopo lo sparo abbiamo ancora P = 0: il proiettile ha una quantità di moto diretta in avanti, mentre l’arma deve avere una quantità di moto MV diretta in senso opposto e di uguale valore; ossia l’arma ha un rinculo con velocità:

 

 

dove m e v sono la massa e la velocità del proiettile, M la massa dell’arma.

 

La scoperta del neutrino

Uno dei maggiori successi, ottenuti grazie ai princìpi di conservazione, è stata la scoperta di una particella elementare: il neutrino. Alcune sostanze, come vedremo in seguito, possiedono una radioattività naturale: il nucleo del Carbonio 14, decade, ad esempio, per emissione ß e forma Azoto 14 (→ 3).

Il decadimento ß equivale in effetti alla trasformazione di un neutrone nucleare in un protone e all’emissione di un raggio ß (elettrone).

Poiché all’inizio il nucleo è in stato di quiete e nel decadimento si emette un elettrone, con una certa quantità di moto Pe, la conservazione della quantità di moto richiede che il nucleo trasformato vada soggetto a rinculo, con una di modulo uguale e con conservazione della quantità di moto direzione opposta. Si è scoperto peraltro che ciò non era vero, in genere, nel decadimento ß (→ 4); nel 1930 W. Pauli ipotizzò, in base alle leggi di conservazione, l’esistenza di una nuova particella elementare, il neutrino, emesso nel decadimento insieme all’elettrone (→ 5). Secondo questa ipotesi, la quantità di moto e d’energia mancanti dovevano seguire la nuova particella.

Nel 1953, C. Cowan e F. Reines dimostrarono, in seguito a numerosi esperimenti, l’esistenza del neutrino.

 

Urti elastici e urti anelastici

In un sistema isolato si conservano la quantità di moto e l’energia di due oggetti in urto. Un corpo però possiede, oltre all’energia cinetica, anche un’energia interna, dovuta al moto relativo degli atomi o delle molecole che lo costituiscono. Perciò, in un sistema isolato, non si conserva solo l’energia cinetica, ma anche l’energia totale.

Un aumento dell’energia interna di un corpo porta a un aumento della sua temperatura. Se una parte di energia cinetica si converte in energia termica, l’urto è detto anelastico.

Un urto anelastico è, in genere, un urto in cui ha luogo una variazione dell’energia interna di uno o di entrambi gli oggetti che interagiscono; l’urto è invece elastico, se non avviene alcuna variazione d’energia interna. In →6 sono rappresentate due sfere rigide oscillanti; se lasciamo cadere una delle due da una determinata altezza, questa urta con l’altra inizialmente ferma. Dopo l’urto, essendo le due sfere identiche, la prima si ferma e trasmette tutta la sua energia cinetica all’altra; nel caso di urto elastico, questa raggiunge l’altezza da cui l’altra era partita. Se gli urti fra le due sfere fossero realmente elastici, si avrebbe un moto perpetuo, con conservazione dell’energia meccanica (senza incremento dell’energia interna).

 

L’elasticità

Per arrivare a deformare un corpo, è necessario applicare sullo stesso una forza di modulo conveniente; se il corpo, cessata l’azione della forza, recupera la forma primitiva, diciamo che è un corpo elastico; in tal caso la deformazione si dice deformazione elastica ed è proporzionale alla forza applicata (legge di Hooke).

I corpi non sono mai perfettamente elastici: se la deformazione supera un certo valore (limite di elasticità), le forze cessano di essere proporzionali alle deformazioni; inoltre, a causa della loro azione, si ha una deformazione residua del corpo; aumentando la forza deformante, si arriva al limite di rottura, quando cioè il corpo si rompe.

La legge di Hooke ha valore solo se si prendono in considerazione deformazioni piccolissime. Rappresentiamo con F l’agente deformatore (ad esempio, una forza di pressione) e con x la deformazione; la legge di Hooke si esprime con F=kx, dove k è una costante di proporzionalità tipica del corpo (→ 1).

Per il principio di azione e reazione il corpo contrappone, alla forza deformante, una forza uguale e contraria: in altre parole, dalla deformazione di un corpo viene generata una forza elastica.

Nel corso della deformazione la forza sposta il proprio punto di applicazione, compie cioè un lavoro, che, se il corpo è elastico, resta immagazzinato come energia potenziale di deformazione. Tale energia ritorna poi a convertirsi in lavoro, quando il corpo recupera la forma iniziale.

Il caso della molla compressa dalla massa m, visto a proposito della conservazione dell’energia meccanica, è un esempio di deformazione elastica.

Quando un corpo subisce una deformazione x, il modulo della forza che l’ha determinata passa da 0 a kx, per cui il valore medio della forza è dato da kx/2. Il lavoro effettuato dalla forza si può calcolare moltiplicando questo valore medio per lo spostamento x del punto di applicazione: kx2/2. Questo è anche il valore dell’energia potenziale corrispondente a una deformazione x.

Osserviamo le illustrazioni (→ 2, 3). Nella prima si osserva come l’energia cinetica porta il treno in arrivo a urtare contro i respingenti; l’energia cinetica si trasforma in energia potenziale di deformazione delle molle presenti nei respingenti. Alla partenza del treno l’energia di deformazione dei respingenti si ritrasforma in energia cinetica e collabora al distacco. Nell’altra illustrazione (→ 3), due palle da biliardo si deformano nell’urto, trasformando la loro energia cinetica iniziale in energia di deformazione, che arriva alla deformazione massima quando le palle vengono a contatto. L’energia di deformazione diminuisce, quando le palle si allontanano dalla posizione di contatto, e si trasforma in energia cinetica. Ritornate alla forma primitiva, le palle si separano; l’energia potenziale di deformazione ora è nulla e l’energia cinetica è costante.

Vibrazioni e onde

Fissiamo l’estremità A di una bacchetta di acciaio (→ 4) e spostiamo un poco l’estremità libera (B) dalla posizione di equilibrio: lasciando andare, la bacchetta prende a vibrare. Muovendo l’estremità B dalla posizione di equilibrio, si produce quindi nella bacchetta una deformazione, con conseguente comunicazione di una energia potenziale di deformazione. Le forze elastiche sviluppate dalla deformazione tendono a portare i vari punti della bacchetta, quando questa sia rilasciata, alla loro posizione di equilibrio, mentre l’energia potenziale di deformazione si trasforma in energia cinetica.

Con la bacchetta tornata in posizione di equilibrio, l’energia potenziale di deformazione diventa nulla: in questa posizione l’energia cinetica può dirsi massima e uguale all’energia di deformazione comunicata all’inizio. La bacchetta non rimane in posizione di equilibrio, ma riprende ad oscillare e a deformarsi. In assenza di attrito, ogni punto raggiunge così la sua posizione simmetrica rispetto alla posizione iniziale. Quando tutta l’energia cinetica si è trasformata in energia potenziale, la bacchetta prende una posizione di riposo istantaneo (velocità nulla), a cui corrisponde una energia potenziale di deformazione pari a quella iniziale. Tale posizione di riposo istantaneo è, naturalmente, simmetrica rispetto a quella iniziale. Se con a indichiamo lo spostamento di un punto qualsiasi dalla sua posizione di riposo, la sua energia potenziale di deformazione sarà 1/2 ka2; nella posizione 6), simmetrica rispetto all’asse, la separazione è -a, a cui corrisponde la stessa energia potenziale. Ogni punto della bacchetta è sottoposto a una forza diretta verso la posizione di equilibrio del punto, il centro di vibrazione, e proporzionale, ad ogni istante, alla distanza fra il centro di vibrazione e il punto; tale distanza è detta elongazione.

Il valore massimo dell’elongazione è l’ampiezza della vibrazione, pari alla distanza tra la posizione del punto e il centro di vibrazione, quando la velocità istantanea è nulla. Il tempo che impiega il punto per effettuare una vibrazione completa da 2) fino a 10) costituisce il periodo del moto, definito moto armonico semplice.

La frequenza è il numero di vibrazioni nell’unità di tempo, pari al reciproco del periodo: misurando il periodo in secondi, la frequenza è data in Hertz (Hz).

 

In→ 1 si rappresenta una massa, posta su una superficie priva di attrito, collegata a una molla elicoidale. Quando m è spostata dalla sua posizione di equilibrio, si genera una forza di richiamo data da F = – kx (il segno negativo indica che il verso della forza è opposto al verso dello spostamento). In base alla seconda equazione della dinamica, la forza deve essere uguale al prodotto della massa m per la sua accelerazione, quindi:

F= ma= – kx

(k è la costante di richiamo della molla); da cui a = – k/mx.

Una registrazione del moto della massa m in funzione del tempo si può ottenere come in → 1: la matita, solidale con la massa, si muove su un rotolo che scorre in maniera uniforme in direzione perpendicolare alla direzione in cui si muove la massa. Il grafico spazio-tempo che si ottiene è una curva sinusoidale (→ 2) della forma:

x = A sen (ωt + φ)

che dà la relazione tra l’elongazione x ed il tempo t (A rappresenta l’ampiezza del moto e φ è la fase iniziale, ed in → 2φ = 0):

dove f è la frequenza e T il periodo, rappresenta la pulsazione del moto armonico. Fra due punti qualsiasi, corrispondenti sulla curva, c’è un intervallo di tempo T (periodo); si dimostra che il periodo del moto armonico semplice di un punto di massa m, sottoposto a una forza F = kx, è:

Moto ondulatorio

Una manifestazione del fenomeno di interazione tra il moto di particelle è il moto ondulatorio. Consideriamo una corda tesa (→ 3): se sollecitiamo un movimento trasversale su una estremità, l’impulso si diffonde per tutta la lunghezza. In questo esempio, l’energia si propaga per onde trasversali, in direzione perpendicolare rispetto alla vibrazione dei punti. Un pistone che si muova con moto periodico in un cilindro comprime l’aria obbligando le particelle di questa a muoversi nella sua direzione (→ 4). Ogni strato ha una pressione maggiore del successivo. L’onda di pressione si propaga nella stessa direzione delle particelle: l’energia dunque si diffonde per onde longitudinali.

Durante un periodo T la perturbazione avanza di una distanza λ, detta lunghezza d’onda, che risulta uguale alla distanza che separa due onde consecutive (→ 5). Poiché la lunghezza d’onda è lo spazio percorso in un periodo T dalla perturbazione che si propaga con velocità v, si ha λ = vT oppure λ=v/f, dato che T = 1/f (f è la frequenza).

Onde sonore

Le onde sonore costituiscono una perturbazione meccanica. Sono onde longitudinali che producono variazioni di pressione e densità nel mezzo in cui si propagano. Immaginiamo di percuotere un gong o una qualsiasi superficie libera di vibrare (→ 1); la superficie, flettendosi in avanti, comprime lo strato d’aria adiacente, che si dilata a sua volta e colpisce lo strato successivo: si genera in questo modo la prima onda sonora.

Poco dopo, la superficie del gong si fletterà all’indietro, per elasticità: anche lo strato d’aria adiacente si dilata, mentre la prima onda sonora continua a propagarsi in maniera indipendente. Dunque, gli strati d’aria a contatto con la superficie metallica si comprimono e dilatano alternativamente. In modo analogo, se il cono di un altoparlante vibra f volte al secondo, le diverse particelle d’aria subiscono f compressioni e rarefazioni per secondo, oscillando intorno alla posizione d’equilibrio, poiché la direzione di vibrazione viene a coincidere con quella di propagazione della perturbazione. Quando queste onde arrivano entro l’orecchio, vi producono f compressioni e rare- fazioni al secondo e fanno vibrare la membrana trasmettendo all’interno la vibrazione: se f ha un valore compreso fra 16.000 e 20.000 Hz, si percepisce un suono.

I valori limite delle frequenze percepibili dal- l’uomo variano da individuo a individuo e devono considerarsi solo come indicativi; le frequenze basse corrispondono ai suoni gravi, le frequenze alte ai suoni acuti.

La sorgente sonora può essere semplice (ad esempio, il diapason) oppure complessa (la laringe umana, con le sue corde vocali).

Anche la vibrazione di una semplice corda tesa (violino, chitarra) dà origine a compressioni e vibrazioni nell’aria circostante, che si propagano come onde longitudinali e producono il suono.

In 2 è riportato il campo di frequenza dei suoni emessi dalla voce umana e da alcuni strumenti musicali.

Il diapason (→ 3) invece è uno strumento in cui la vibrazione di tutti i punti è armonica semplice, ha cioè una frequenza singola. Anche le vibrazioni dei punti dello spazio sono armoniche semplici: il loro suono è detto infatti suono puro. Gli altri sistemi che danno suono producono in genere suoni composti, che si possono considerare come sovrapposizione di un suono puro e di altri suoni con frequenza multipla della prima.

Al suono base si dà il nome di armonica fondamentale, ai suoi multipli quello di armoniche superiori.

Caratteristiche del suono

Il suono ha tre caratteristiche: intensità, altezza e timbro.

L’intensità distingue il suono forte dal suono debole; è una quantità fisica definita in termini di flusso di potenza, corrispondente al numero di watt al cm2 trasmessi attraverso una superficie perpendicolare al fronte d’onda. Un suono è molto intenso quando è molto grande l’energia delle particelle del mezzo di propagazione; si dimostra infatti che tale energia è proporzionale al quadrato dell’ampiezza della vibrazione. L’intensità di un suono dipende dunque dalla sua ampiezza. L’orecchio umano arriva a percepire una vasta gamma di intensità acustiche. I rumori con intensità di circa 1012 volte la soglia di udibilità (→ 4) possono essere avvertiti con una sensazione di fastidio negli organi dell’udito; oltre questo livello la sensazione diventa dolorosa e può danneggiare l’orecchio non protetto.

L’altezza di un suono è la caratteristica che permette di distinguere tra suoni acuti e suoni gravi; essa cresce con l’aumentare della frequenza d’onda. Tale frequenza corrisponde all’armonica fondamentale. Due note musicali diverse si distinguono nell’altezza.

Il timbro di un suono è la caratteristica che ci permette di distinguere una stessa nota emessa da strumenti diversi. Un violino e una tromba possono emettere una stessa nota (un medesimo tono), suoni cioè che hanno la stessa armonica fondamentale.

È possibile tuttavia che le armoniche superiori abbiano intensità relative differenti: il timbro di uno strumento dipende infatti dall’importanza che assumono le armoniche superiori (→ 5).

La termologia

Temperatura e calore

Poniamo a confronto un corpo che sia stato riscaldato e un cubetto di ghiaccio: diremo che il primo è più caldo (avvicinandoci avvertiamo infatti una sensazione di calore), mentre l’altro produce una sensazione di freddo. La grandezza fisica che misura queste sensazioni è la temperatura.

Per ottenere una misura quantitativa della temperatura si fa ricorso, come per la forza, agli effetti fisici che produce; essa può essere determinata infatti attraverso le variazioni di volume del corpo sottoposto a cambiamenti di temperatura.

 

Scala termometrica

Per definire una scala di temperature e per costruire uno strumento che misuri la temperatura (termometro), si ricorre alla proprietà sperimentale, propria di quasi la totalità dei corpi, di dilatarsi quando sono sottoposti a riscaldamento, o di contrarsi, quando invece sono raffreddati.

Il termometro è costituito da un sottile tubo di vetro, chiuso a una estremità e terminante dall’altra con un piccolo bulbo contenente un liquido (acqua, alcool, mercurio, ecc.). Per graduare la scala della temperatura è necessario stabilire delle temperature di riferimento (→ 1).

Per la taratura della scala centigrada si procede come segue: posto il bulbo del termometro a contatto con il ghiaccio fondente alla pressione di 1 atmosfera, si lascia trascorrere il tempo sufficiente perché il termometro venga in equilibrio con il ghiaccio: a questo punto il livello raggiunto dalla colonna di mercurio si assume come 0 della scala. Si pone quindi il termometro in un recipiente con acqua bollente, sempre alla pressione di 1 atmosfera; si assume come grado 100 della scala il livello raggiunto dal liquido, quando si sia stabilita una situazione di equilibrio fra acqua e termometro.

La parte del tubo compresa fra questi due punti (0 e 100) viene divisa in 100 parti uguali, i cosiddetti gradi centigradi: se la colonna termometrica sale di una divisione, si dice che la temperatura è aumentata di un grado centigrado (1 °C).

 

Calore

Poniamo a contatto due corpi di diversa temperatura: quello che possiede una temperatura più elevata cede all’altro una certa quantità di energia, detta energia termica o, più semplicemente, calore.

Il calore è stato considerato per lungo tempo un fluido imponderabile contenuto nei corpi, in grado di passare dai più caldi ai più freddi, fino a che le rispettive temperature non risultino uguali.

Gli esperimenti del conte di Rumford, di Davy e di Joule cancellarono questa ipotesi. Joule, in particolare, misurò l’equivalente fra unità di calore (caloria) e unità di energia.

Il calore è dunque una forma di energia; come tale, esso può assumere con facilità una forma diversa senza per questo distruggersi né essere creato (principio della conservazione dell’energia).

A livello microscopico, il trasferimento di calore si può interpretare come un trasferimento di energia cinetica per collisione delle particelle che costituiscono i due corpi, oppure come trasferimento di energia radiante da un corpo all’altro. Non si parla pertanto di “calore contenuto” in un corpo, ma soltanto di calore assorbito o ceduto.

L’unità di misura termica è la caloria, corrispondente alla quantità di calore che occorre infondere in un grammo d’acqua per elevare la sua temperatura di 1 °C. L’energia corrispondente ad una caloria equivale a 4,18 joule, calcolabile per mezzo di un dispositivo, simile a quello utilizzato da Joule (→ 6).

A un peso di massa M è collegata una funicella, avvolta all’altra estremità intorno a un albero ruotante, cui sono connesse delle pale immerse in acqua. Se il peso viene fatto cadere per un’altezza h, la quantità di energia ΔQ assorbita dall’acqua per attrito con le pale è uguale al lavoro Mgh, fatto dal campo gravitazionale sul peso, meno l’energia cinetica con la quale il peso giunge a terra, meno ancora il lavoro compiuto per vincere gli attriti meccanici presenti nel dispositivo.

Misurando la variazione di temperatura dell’acqua, si ottiene l’energia equivalente ad una caloria.

 

Fusione ed evaporazione

I corpi solidi sono composti da particelle disposte nelle tre dimensioni secondo reticoli periodici (→ 1). Le particelle conservano sempre una separazione reciproca e possono vibrare attorno a determinate posizioni di equilibrio. Quando si dà calore a un corpo, aumenta nello stesso tempo l’energia cinetica di vibrazione delle particelle componenti e, di conseguenza, cresce l’ampiezza delle oscillazioni.

Si dice che un corpo passa dallo stato solido allo stato liquido, quando gli viene fornita una quantità di calore tale che l’energia cinetica acquisita dalle singole particelle è sufficiente a rimuoverle indefinitamente dalle posizioni iniziali d’equilibrio.

Il fenomeno si produce per ogni corpo omogeneo a temperatura costante, detta temperatura di fusione; il passaggio dallo stato solido allo stato liquido si dice fusione. Durante la fusione, la temperatura resta costante, sebbene si fornisca calore al corpo. Questo calore si convertirà in lavoro contro le forze di coesione tendenti a mantenere unite le particelle.

La quantità di calore necessaria per fondere un grammo di una certa sostanza si dice calore di fusione. Ad esempio, la temperatura di fusione del ghiaccio è di 0 °C: se riscaldiamo il ghiaccio (che ha temperatura inferiore allo zero) fino a 0 °C, il ghiaccio non fonde se non gli diamo altro calore; se continuiamo invece a fornirgli calore, la temperatura si mantiene a 0 °C e sono necessarie 80 calorie per fondere un grammo di ghiaccio. Il calore di fusione del ghiaccio è quindi di 80 calorie per grammo (→ 2). Viceversa, se raffreddiamo l’acqua, togliendole calore, la temperatura discende fino a 0 °C e da questo valore si mantiene costante: il calore di congelamento è uguale a quello di fusione (→ 5).

I liquidi sono costituiti da particelle che, pure essendo soggette a forze di attrazione e coesione, si possono muovere in tutte le direzioni. In particolare, le particelle superficiali possono muoversi verso l’esterno del liquido. Se l’energia cinetica di queste particelle è debole, le forze di coesione sono in grado di trattenerle all’interno; se l’energia cinetica è invece elevata, le particelle possono uscire dal liquido, senza più subire le forze attrattive di altre particelle. È ovvio che il numero di particelle con energia sufficiente a lasciare il liquido è tanto maggiore quanto più elevata è la temperatura del liquido.

Se le particelle in grado di uscire dal liquido si vengono a trovare nell’ambiente a distanze notevoli, esse costituiscono quello che si dice un vapore. L’evaporazione è il fenomeno di passaggio tra la fase liquida e quella gassosa. Per fare evaporare un grammo di liquido è necessario intervenire con la quantità di calore caratteristica di quel liquido: il calore di evaporazione (→ 3).

Quando si condensa, torna cioè alla fase liquida, il vapore restituisce una quantità di calore identica a quella richiesta per l’evaporazione: il calore di condensazione è perciò uguale al calore di evaporazione. Nel caso dell’acqua, esso corrisponde a 537 calorie per grammo. Tra i cambiamenti di stato è da ricordare la sublimazione, cioè il passaggio diretto dallo stato solido al gassoso e viceversa: questo fenomeno si osserva nello iodio a temperatura ambiente.

 

Influenza della pressione

La fusione e la solidificazione hanno luogo a temperature in genere diverse per ogni valore della pressione, cioè della forza per unità di superficie che l’ambiente esterno esercita sopra un corpo (solido, liquido o gassoso). Il ghiaccio fonde, ad esempio, a una temperatura inferiore a 0 °C, se sottoposto a una pressione superiore a quella atmosferica (per la rappresentazione del fenomeno → 4).

La pressione ha un ruolo di grande importanza anche nel fenomeno dell’evaporazione.

In un recipiente parzialmente ripieno di liqui- do, alcune particelle fuoriescono dal liquido e vanno ad occupare la porzione del recipiente rimasta libera. Sono particelle allo stato di vapore che si muovono in tutte le direzioni facendo anche ritorno nel liquido e determinando due flussi di particelle: uno che esce dal liquido e l’altro che vi entra.

Quando il numero delle particelle in uscita è maggiore, si ha evaporazione (p. 35 → 1a); abbiamo invece condensazione, quando è maggiore il numero delle particelle di ritorno (p. 35 → 1b).

Nel corso dell’evaporazione aumenta, all’esterno, il numero di particelle di vapore per unità di volume, e aumenta quindi la pressione, cioè la tensione del vapore. Cresce anche, nel frattempo, il numero delle particelle che fanno ritorno al liquido nell’unità di tempo. Il liquido è in equilibrio con il suo vapore quando le particelle in entrata e in uscita sono in numero uguale (→ 1c). Si dice vapore saturo il vapore in equilibrio con il liquido e tensione di vapore saturo la tensione corrispondente.

 

Con l’aumento della temperatura, aumenta l’energia cinetica delle particelle e, quindi, il numero di queste in grado di uscire; in questo modo vien meno il precedente equilibrio e l’evaporazione continua finché, essendo aumentato il numero delle particelle di vapore, l’equilibrio si ristabilisce. Al rinnovato equilibrio corrisponde un nuovo valore della tensione di vapore saturo (→ 1d), legato alla temperatura. Anche il vapore acqueo dell’atmosfera (→ 2a) giunge a saturazione (→ 2b) e in questo caso si condensa su qualsiasi superficie (a temperatura ambiente) e produce rugiada (→ 2c).

La tensione di vapore in funzione della tempera- tura (3) mostra che i valori corrispondenti ai diversi stati di equilibrio fra liquido e vapore formano una curva, detta curva di evaporazione.

A una certa temperatura, se la tensione di vapore è inferiore al valore di saturazione, avviene che dopo qualche tempo sia presente solo vapore, mentre a tensioni di vapore superiori il vapore non esiste, perché le particelle gassose, trascorso un certo periodo, passano alla fase liquida. Si dice curva di fusione la rappresentazione grafica degli stati di equilibrio fra il corpo allo stato liquido e il corpo allo stato solido. La curva di evaporazione (→ 3) e la curva di fusione si intersecano in un punto T (→ 4) che dà lo stato di equilibrio presente sia sulla curva di evapora- zione sia sulla curva di fusione. In questo punto le tre fasi vengono in equilibrio: il punto appartiene perciò anche alla curva di sublimazione e viene definito punto triplo.

 

Ebollizione

Con un adeguato aumento della temperatura, nel liquido ha luogo un nuovo fenomeno: l’ebollizione.

Il moto di tutto il liquido assume, con l’ebollizione, un aspetto turbolento, mentre dalla sua superficie si liberano rapidamente bolle di vapore.

La temperatura di ebollizione di un liquido omogeneo, per una data pressione esterna, è sempre costante (cresce con l’aumentare della pressione esterna e viceversa).

In alta montagna, ad esempio, dove la pressione atmosferica è inferiore a quella del livello del mare, la temperatura di ebollizione dell’acqua è inferiore a 100 °C.

Di contro, in condizioni di alta pressione (in una pentola a pressione o nella caldaia di locomotive a vapore) la temperatura di ebollizione dell’acqua è superiore a 100 °C (→ 5).

Perché sia possibile l’ebollizione, è necessario che nel liquido siano disperse piccole particelle di altre sostanze (bolle d’aria, sali, ecc.).

Le bolle d’aria, disperse in un liquido come l’acqua, sono sottoposte a una pressione superiore a quella atmosferica (ciò fa sì che le bolle d’aria si presentino in dimensioni molto ridotte e siano pressoché invisibili all’occhio).

Con l’aumento della temperatura, aumenta l’energia cinetica delle singole particelle di aria e di vapore acqueo che compongono le bolle; di conseguenza, cresce anche la pressione interna e il volume.

Se il liquido riceve via via nuovo calore, le bolle interne tendono ad aumentare di volume: a un certo punto, diventate finalmente visibili, salgono in superficie e liberano aria e vapore acqueo.